Le previsioni meteorologiche sono sempre più affidabili, ma non sono ancora abbastanza veloci da permettere di prepararci agli uragani
La mattina del 24 ottobre, la tempesta tropicale Otis si stava dirigendo verso la costa pacifica del Messico.
Più tardi nella stessa giornata, si è trasformata in un uragano di categoria 5 che ha colpito Acapulco con venti a 265 km/h.
I primi bilanci forniti dal Governo mostrano una situazione critica: circa l’80% degli edifici è stato danneggiato, mentre le vittime accertate, finora, sono 43 e i dispersi ammontano a 36, anche se ci sono ancora molto corpi a cui non è stata data un’identità.
Il mese precedente era stato osservato un evento simile: quando i satelliti hanno iniziato a diffondere le immagini dell’uragano Lee, il quale al momento sta risalendo l’Atlantico, i meteorologi hanno osservato il terzo caso più veloce mai registrato di intensificazione rapida, che si verifica quando la velocità del vento di un uragano aumenta di 56 km/h o più nell’arco di 24 ore.
Il 7 settembre, la velocità del vento all’interno di Lee era più che raddoppiata, trasformandolo da una tempesta di categoria 1 con venti a 128 km/h a una terrificante tempesta di categoria 5 con venti a oltre 265 km/h.
Questo tipo di crescita esplosiva sta diventando sempre più comune in alcune aree geografiche e gli scienziati sono concordi nel ritenere che il riscaldamento del pianeta finirà per produrre un maggior numero di uragani come Lee e Otis, tempeste mostruose che potrebbero raddoppiare la loro forza prima di colpire le comunità che si affacciano sulla costa.
Il fenomeno della rapida intensificazione si verifica solo in un numero ridotto di cicloni tropicali ogni anno.
Uno studio pubblicato il mese scorso su Nature ha rilevato che, nel raggio di poco meno di 390 km dalle coste, le tempeste a rapida intensificazione oggi sono molto più comuni rispetto a 40 anni fa: ne sono un esempio l’uragano Ian del 2022 e l’uragano Michael del 2018.
Quest’ultimo è passato da tempesta di categoria 2 a tempesta di categoria 5 il giorno prima di abbattersi sulla Florida, provocando decine di vittime e danni per 25 miliardi di dollari (circa 23,5 miliardi di euro).
E mentre alcuni uragani si intensificano in mare aperto, quelli che aumentano rapidamente prima di toccare terra rappresentano un rischio maggiore per chi vive sulla costa.
In una situazione del genere, ad esempio, le evacuazioni ordinate in previsione di una tempesta di categoria 2 o 3 potrebbero rivelarsi del tutto inadeguate, lasciando migliaia di persone vulnerabili: il peggior incubo dei meteorologi.
Fino a poco tempo fa, era difficile prevedere una rapida intensificazione, che può avvenire all’improvviso, anche perché per scatenarla si devono verificare una serie di condizioni talmente mutevoli che è difficile tracciarle tutte in tempo reale.
Inoltre, molto dipende dall’attività nel cuore dell’uragano, da cui è notoriamente difficile raccogliere dati. Gli scienziati stanno ora sviluppando nuovi metodi che li aiutino ad avvertire la popolazione di questa crescente minaccia.
Lo sviluppo di un uragano dipende dalle giuste condizioni ambientali: se l’acqua nell’oceano al di sotto dell’uragano è sufficientemente calda, rilascia grandi quantità di energia mentre evapora, creando così un calo della pressione atmosferica dell’aria che scatena venti impetuosi.
Il sistema di rafforzamento sfrutta anche l’aria umida circostante, che blocca la condensa e l’energia all’interno dell’uragano stesso. Anche il ridotto gradiente verticale del vento, in cui i venti ad alta quota mantengono una velocità relativamente bassa, aiuta l’uragano a mantenere la sua potenza.
Ma tra tutte queste condizioni cos’è che fa la differenza tra una tempesta che si rafforza gradualmente e una che si intensifica rapidamente?
“Tutti i fattori devono allinearsi”, afferma Brian Tang, scienziato atmosferico dell’Università di Albany. Lo sviluppo simultaneo di tutte queste condizioni contribuisce a innescare una rapida intensificazione.
Poco prima dell’improvvisa esplosione di potenza dell’uragano Lee, Tang aveva intuito che la situazione stava per degenerare, grazie alle immagini della massa vorticosa di cristalli di ghiaccio e acqua piovana all’interno dell’uragano.
“Era molto simmetrico”, ricorda Tang. “Un chiaro segnale che l’uragano avrebbe fatto un salto di intensità”.
Non è stato solo Tang a intuire che Lee stava per diventare molto più potente. Lo scienziato osserva che modelli come l’Hurricane Analysis and Forecast System (HAFS, il sistema di analisi e previsione degli uragani) dell’agenzia statunitense National Oceanic and Atmospheric Administration (NOAA, Amministrazione nazionale per l’oceano e l’atmosfera) avevano effettivamente previsto una rapida intensificazione di questo uragano con circa 24 ore di anticipo.
Ma le sorprese non sono mancate, come afferma Jason Dunion, meteorologo e direttore dell’Hurricane Field Program della NOAA. “Penso che fosse abbastanza chiaro a me e agli altri meteorologi che avremmo assistito a una rapida intensificazione, quei 56 km/h in un giorno”, ricorda. “Ma è stato molto più veloce di quanto avessimo previsto”.
Raccogliendo in anticipo più dati dal nucleo interno di un uragano, anche attraverso i voli di ricognizione Hurricane Hunter che effettuano Dunion e i suoi colleghi, forse questi modelli potrebbero essere ancora più precisi nel prevedere il grado di rapida intensificazione che si verificherà.
Anche le misurazioni più dettagliate aiutano i meteorologi. Prendiamo l’uragano Michael del 2018: secondo uno studio del 2020 i dati satellitari e le letture delle boe nel Golfo del Messico, ad esempio, avevano mostrato che era in corso un’ondata di calore marino durante il suo avvicinamento.
In futuro, dati simili potrebbero avvertire i meteorologi che un uragano in arrivo sta per intensificarsi.
Inoltre, i ricercatori sfruttano sempre più spesso i droni per volare nella parte inferiore e più pericolosa di un uragano, chiamata “strato limite”, per raccogliere informazioni utili sull’intensificazione delle tempeste.
Ruby Leung, scienziata atmosferica presso il Pacific Northwest National Laboratory del Dipartimento dell’Energia degli Stati Uniti, sottolinea che l’influenza dell’oceano sui cicloni tropicali può essere complessa.
Se, ad esempio, molta acqua dolce si riversa nell’oceano da un fiume, si può creare uno strato superiore di acqua calda e più dolce al di sopra dell’acqua più densa e salata sottostante.
Questo rende molto più difficile per una tempesta rimescolare l’oceano e portare in superficie l’acqua di profondità più fredda. Se le acque superiori rimangono calde, un uragano può continuare a rafforzarsi.
Questo effetto ha sovraccaricato l’uragano Irma nel 2017. “Si è intensificato rapidamente proprio nel momento in cui è passato sopra quest’area con acqua molto dolce sulla superficie dell’oceano”, spiega Leung.
La scienziata e i suoi colleghi hanno pubblicato uno studio nel 2020, in cui hanno mostrato che, apparentemente, l’acqua dolce proveniente dal sistema fluviale Rio delle Amazzoni-Orinoco aumenta le possibilità di una rapida intensificazione nei Caraibi orientali e nell’Atlantico tropicale occidentale.
Una stratificazione oceanica simile si verifica quando gli uragani producono quantità particolarmente elevate di precipitazioni, che aggiungono anch’esse uno strato superficiale di acqua dolce all’oceano, rendendolo più difficile da mescolare.
Vi sono già segnali che indicano che il raffrescamento (causato dai cambiamenti climatici) a seguito dell’aumento delle precipitazioni nel Pacifico settentrionale, ad esempio, sta intensificando i tifoni, che sono l’equivalente degli uragani in quella regione.
Gli uragani, e le tempeste in genere, tendono a produrre più precipitazioni con l’aumento della temperatura dell’aria, aggiunge Leung, aumentando le probabilità di intensificazione e creando così una sorta di circolo vizioso.
Henry Potter, oceanografo della Texas A&M University, ha studiato il modo in cui l’uragano Harvey si è rapidamente intensificato nel 2017 quando ha raggiunto la cosiddetta Texas Bight, una regione di acque costiere nel Golfo del Messico.
Una misurazione dell’energia termica a disposizione della tempesta suggeriva che il rischio di una rapida intensificazione era relativamente basso, ma non teneva conto del fatto che l’acqua era calda fino in fondo.
“Non importa quanto dura la miscelazione, non è possibile portare verso gli strati più superficiali l’acqua fredda”, spiega Potter.
Comprendere queste sfumature ambientali è fondamentale per prevedere meglio e in anticipo la rapida intensificazione, che diventa un rischio sempre più comune.
Le ricerche indicano che le aree popolate saranno più esposte agli uragani nel prossimo futuro.
Ad esempio, il gruppo non-profit First Street Foundation stima che una percentuale significativa, circa il 40%, della popolazione del Michigan sud-orientale è potenzialmente inconsapevole dell’aumento del rischio di inondazioni nella propria zona a causa dell’aumento delle precipitazioni, anche dovute agli uragani.
Si prevede inoltre che il raggio d’azione complessivo dei cicloni tropicali si amplierà in modo significativo, e ciò significa che nei prossimi anni milioni di persone in più potrebbero subire gli effetti devastanti di queste tempeste gigantesche, e in particolare della loro rapida intensificazione.
“È una grande preoccupazione”, afferma Potter. “È inevitabile che gli oceani diventino come l’acqua della vasca da bagno in estate, vasche profonde che favoriscono l’intensificarsi delle tempeste”.
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