Il congolese Alain Mabanckou spiega come superare gli stereotipi delle immagini delle acacie con il sole che tramonta sulla savana d’Africa
Nelle librerie europee e americane i romanzi ambientati in Africa oppure scritti da autori africani sono riconoscibili nelle librerie perché le loro copertine tendono ad assomigliarsi e a esplicitare la provenienza geografica.
Molte copertine infatti riproducono tramonti sulla savana e, anche cambiando i soggetti, i colori prediletti sono il giallo e l’arancione. Ebbene sì quindi, ci sono dei veri e propri stereotipi per le copertine dei libri con qualche legame con l’Africa, un fatto più volte notato dagli scrittori africani.
Perché le copertine dei libri sull’Africa o di scrittori africani sono molto simili tra loro?
Alain Macanckou ne aveva parlato nel 2016 al Collège de France in una conferenza pubblicata da E/O nel libro Otto lezioni sull’Africa: “A colpire di più, quando si ha fra le mani una qualche copertina di opere di autori africani, sono spesso le immagini scelte. Si ripetono da un editore all’altro e, di conseguenza, ci portano a leggere una certa Africa. In genere sono un invito a un viaggio lontano, come nei secoli passati, quando quell’illustrazione doveva farci sognare e prometterci una passeggiata esotica in un universo palpitante in cui il mistero, l’avventura, la magia e la stregoneria erano garantite. Nella lezione inaugurale ho ricordato quanto la letteratura esotica, secondo Jean-François Staszak, avesse uno scopo preciso, scopo che aveva decretato il suo successo di allora: quella letteratura “tenta di riprodurre un viaggio che è stato già fatto: quello da cui provengono testi o immagini così attraenti che si vuole andare a vederle dal vero”.
Continua Macanckou: “La riproduzione di una simile rappresentazione esotica deriva dall’inconscio coloniale, e l’obiettivo della copertina del libro è di “fare molto africano”, di aderire al repertorio dei cliché per rassicurare i lettori del fatto che li aspetta un’avventura nei tropici. Ecco allora che la maggior parte di questi ingredienti viene impiegata nella vendita sfrenata di un simile “prodotto”: si promette una lingua francese presumibilmente mescolata con gioiosi africanismi, una saporita oralità, figurata e soleggiata, e viene garantita la scoperta di un’Africa sconosciuta, allo stesso tempo tenera e violenta, nella quale l’eroe trasporterà i felici lettori al cuore del continente nero, fra magia, sacrifici umani e fedeltà agli oscuri dèi delle foreste misteriose”.
Max Roy in Du titre littéraire et de ses effets de lecture (Sul titolo letterario e i suoi effetti di lettura), si chiede: “Chi non conosce certi titoli di libri che non ha mai letto ma di cui sa o sospetta l’importanza? Eppure, qualunque lettore apprende presto o tardi a diffidare dei titoli dei libri. Sono imperfetti, fuorvianti o manipolatori. Chi non ha mai provato sorpresa o delusione alla lettura di un’opera dal titolo invitante?”
Simili interrogativi potrebbero essere formulati anche riguardo l’immagine apposta sulla copertina di un libro pubblicato da un autore africano.
Anche quando si decidesse di cambiarla, questo non lo salverebbe dal peggio, perché quei cambiamenti, giustificati dalla temperie o dalla buona coscienza del tempo, non bastano da soli a cancellare i pregiudizi dell’illustrazione precedente, ma riattualizzano lo stereotipo, lo adattano al gusto del momento.
È quello che accade per esempio nel caso della copertina di Un bambino nero di Camara Laye che, nel 1953, era praticamente neutra, con semplicemente il titolo scritto in nero su sfondo bianco. Più tardi, nel 2007, quando mi verrà affidato il compito di scrivere la prefazione della riedizione del libro, l’editore tornerà a una suggestione più “africana”: un bambino nero in movimento, a piedi nudi su una strada polverosa, con un cerchio e un bastone in mano, e la camicia aperta dal vento.
La questione delle copertine stereotipate con la stessa rappresentazione
Le copertine stereotipate resistono anche nella nostra epoca e succede che certi editori, attingendo senza dubbio dagli stessi repertori fotografici, ricorrano alla stessa rappresentazione, come possiamo vedere con Il ricordo dell’amore, il romanzo di Aminatta Forna, britannica di origine sierraleonese, e Aminata, romanzo del canadese Lawrence Hill.
Entrambi i libri riprendono infatti l’immagine della stessa donna e la sola cosa a differenziarle è la direzione verso cui rivolge il suo sguardo il personaggio femminile africano mostrato. Ed è la stessa immagine che sceglieranno le edizioni Présence Africaine per la pubblicazione di Aminata in traduzione francese, solo che quest’ultima casa editrice ha aggiunto due cicatrici discrete sul volto del personaggio, per accentuare la sua africanità.
Come si può spiegare questo atteggiamento? Le Courrier International ha ripreso un articolo pubblicato dal sito Africa is a Country e intitolato Littérature africaine: des couvertures de livres bien trop cliché [Letteratura africana: copertine di libri troppo stereotipate].
L’articolo ricordava, presentando vari esempi, come le copertine della letteratura africana non potessero fare a meno di presentare i simboli che il pubblico americano si aspettava: un’acacia, il sole che tramonta sulla savana oppure, nel caso dei libri dal Maghreb, una donna con il velo.
Peter Mendelsund, direttore artistico di una delle più grandi e prestigiose case editrici americane, la Knopf, attribuì la responsabilità alla pigrizia del mondo editoriale americano che, pensando l’Africa, preferisce ricorrere a ciò che assicurerebbe il successo e che il pubblico si aspetterebbe: “Nel momento in cui il manoscritto è pronto per entrare in produzione c’è la forte tentazione di seguire un percorso già segnato. Se qualcuno osa fare qualcosa di diverso, e il libro non si vende, si sa già con chi prendersela: il tizio che non ha messo l’acacia in copertina”.