Tra infanzia tragica, capolavori e vicende giudiziarie, Roman Polanski ha spento le sue 90 candeline dall’Olimpo dei registi
Il 18 agosto ha compiuto 90 anni il celebre regista, sceneggiatore, attore e produttore cinematografico Roman Polanski, il quale porterà alla Mostra del Cinema di Venezia il suo film The Palace.
Il conteggio arriva a 21 film in 61 anni di carriera, quasi tutti girati lontano da casa e attraversati dai demoni del dubbio, della sfiducia nel genere umano, della violenza e della crudeltà.
Gli ultimi film, trasformati in kammerspiel – opere da camera – per le complesse vicende giudiziarie che lo accompagnano fin dagli anni ’70 e, al solo pronunciare del suo nome, la società dello spettacolo si divide tra colpevolisti e perdonisti con punte clamorose.
Un esempio è la cerimonia dei César per L’ufficiale e la spia (2020) quando l’attrice incaricata di consegnargli il premio per la regia lascia polemicamente il palcoscenico, o quando la presidente della giuria della Mostra del Cinema di Venezia Lucrecia Martel, contesta la selezione dello stesso film affermando che non separa l’opera dalla persona.
Ma quando è iniziata questa caccia alle streghe nei confronti di Roman Polanski? Tutto risale alla denuncia per abuso di minore – Samantha Geimer -, spiccata dal tribunale di Los Angeles nel 1977 e risoltasi in una condanna per l’età (meno di 14 anni) della giovane modella che, in seguito, ha sempre dichiarato che il rapporto non fu uno stupro e che non gli porta rancore, come si evince nel documentario A film memoir (2012) di Laurent Bouzereau.
Fuggito a Londra dopo la condanna, Roman Polanski è nella red notice del governo americano dal 2005 e rischia l’estradizione se esce dalla Francia o dalla Svizzera che l’hanno accolto; sono cinque le denunce per violenza sessuale contro di lui che ad oggi non sono giunte a giudizio.
Queste vicende, rinverdite dalle più recenti e appassionate battaglie del movimento Me Too, è solo l’ultima svolta di una vita attraversata dal dolore e dal dramma.
Rajmund Roman Thierry Polański nasce già esule a Parigi il 18 agosto 1933 dallo scultore e pittore Ryszard Liebing che ha cambiato nome per le sue origini ebree e per essere accettato si è trasferito in Francia.
A soli tre anni, quando l’intolleranza antisemita contagia la Francia, il bambino segue la famiglia che fa ritorno a Cracovia, ma qui, con l’arrivo dei nazisti, verrà rinchiuso nel ghetto della città.
La madre, deportata ad Auschwitz morirà nel lager, mentre il padre, deportato e sopravvissuto a Mauthausen, farà appena in tempo ad affidare il figlio a una famiglia cattolica polacca che poi lo rivenderà a dei contadini presso cui vivrà fino all’arrivo dell’Armata Rossa.
Negli anni ’50 Roman Polanski sceglie la via del cinema iscrivendosi alla Scuola di Lodz, fucina di tutta la generazione e debutta come attore nel 1955 sul set del Maestro Andrzej Wajda con Generazione.
Si diploma nel 1959 ma già quattro anni prima esce il suo cortometraggio Rower, per il quale attinge a una brutta esperienza personale con un brutale teppista.
In quello stesso anno sposa l’attrice Barbara Lass e nel 1962 passa dietro la macchina da presa con il film Il coltello nell’acqua. Sarà la sua unica prova in patria prima de Il pianista, avversata dal regime per l’assenza di un finale edificante, ma accolta con entusiasmo dal pubblico poiché contenente forti elementi thriller e non segue le orme del cinema patriottico allora in voga.
Da qui svilupperà uno stile libero e fortemente segnato da modelli stranieri, Hitchcock sopra tutti e, malgrado gli ostacoli, sarà finalista all’Oscar e finirà battuto solo da Fellini. A meno di 30 anni Roman Polanski è già una stella, esaltato dalla critica alla Mostra del Cinema di Venezia.
Nel 1963 lascia definitivamente Cracovia e torna in Francia, per poi approdare a Londra dove lavora con lo sceneggiatore Gérard Brach alla trilogia che lo impone definitivamente in poco più di due anni: Repulsion con Catherine Deneuve, un horror psicologico a metà strada tra Hitchcock e Bunuel; Cul de sac, la tragicommedia che molto deve al teatro dell’assurdo e alla lettura di Samuel Beckett; infine Per favore non mordermi sul collo in chiave di parodia degli horror inglesi.
L’ultimo è anche un grande successo commerciale e su quel set conosce Sharon Tate, che poi sposerà in seconde nozze.
Chiamato a Hollywood vi si trasferisce nel 1968 per girare Rosemary’s Baby, ritenuto ancora oggi un capolavoro del genere, ma è in Gran Bretagna l’anno successivo quando gli adepti di Charles Manson fanno irruzione nella sua villa a Los Angeles sterminando Sharon Tate all’ottavo mese di gravidanza e gli amici presenti in casa la sera dell’8 agosto.
Per due anni Polanski non toccherà più la cinepresa e nel ’71 ritornerà con una cupa, violenta versione di Macbeth che ne mette a nudo i sentimenti più neri.
Grazie all’amico Brach e alla fiducia di Carlo Ponti prova a riprendersi con una commedia alla Vadim ispirata liberamente ad Alice di Lewis Carroll. Ma Che? non lo convince e tornerà quindi a Los Angeles, come per seppellire il dolore personale, firmando il sui capolavoro Chinatown che gli varrà 11 nominations all’Oscar.
Hollywood è di nuovo ai suoi piedi ma Polanski è inseguito dai suoi fantasmi e si rifugia in Europa per eleganti quadri d’epoca come Tess e Oliver o per thriller di grande fattura come L’inquilino del terzo piano e Frantic dove incontra la sua terza moglie, Emmanuelle Seigner.
Dopo il successo mondiale de Il pianista – Palma d’oro nel 2002 e l’Oscar nel 2003 – è definitivamente nell’Olimpo dei grandi registi di tutti i tempi e ad ogni nuova prova riesce a spiazzare le attese, come con L’ufficiale e la spia che, nel racconta il caso Dreyfuss, suona come la più appassionata delle autodifese.
Ribelle, tormentato, ateo, ironico e seduttivo, anche a 90 anni Polanski è capace di sorprenderci col suo sarcasmo senza pietà.
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